La Storia

Il Parco Botanico Corsini, detto originariamente Parco di Acclimatazione della Casa Bianca, rappresenta uno dei più significativi esempi di giardini di acclimatazione istituiti in Italia nella seconda meta dell’800.
Il parco nasce nel 1868 per volontà del Generale Vincenzo Ricasoli (1814-1891), fratello del più famoso Bettino detto
il Barone di Ferro, che fu Presidente del Consiglio del neonato Regno d’Italia dopo Camillo Benso di Cavour.

Vincenzo Ricasoli

Vincenzo, detto Cencio, aveva sempre coltivato un grande amore per le piante e le scienze botaniche, al punto che la madre, Elisabetta Ricasoli, rimasta presto vedova aveva affidato l’educazione del figlio al botanico Antonio Targioni-Tozzetti, direttore del Giardino dei Semplici di Firenze, attuale Orto Botanico. L’educazione del giovane Vincenzo, grazie alla lungimiranza del fratello maggiore Bettino si era conclusa con un lungo tour europeo, durato tre anni. In questo periodo egli aveva studiato e osservato anche nuove tecniche di vinificazione e coltivazione della vite, che saranno poi applicate nella tenuta di Brolio nel Chianti.

In realtà, abbastanza presto, Vincenzo Ricasoli aveva dovuto abbandonare tali studi per iniziare una carriera amministrativa, politica e a partire dal 1848 anche militare, che lo avevano portato al grado di Maggiore Generale dell’esercito sabaudo.

Così scriveva nel 1888, nelle prime pagine di una relazione da lui scritta dal titolo Utilità dei giardini di acclimatazione e della naturalizzazione delle piante: “Fin dalla prima gioventù amai le piante, e mi dedicai con molto amore allo studio della Botanica, che coltivai fino al risveglio delle cose nostre italiane, quando tutti i cuori palpitavano nella speranza di veder compito un vivissimo desiderio, che allora altro non era che un sogno. Lasciai i piacevoli studi per prendere parte attiva a tutte quelle vicende che finalmente ci condussero a quel fatto solenne e portentoso, che fu la costituzione del Regno di Italia”.
Una volta realizzato questo sogno, Vincenzo Ricasoli aveva finalmente potuto riprendere a seguire le proprie inclinazioni. Nel 1854, egli aveva proposto al fratello Bettino, l’acquisto di una tenuta sotto Grosseto. L’idea non si era concretizzata, ma poco dopo Vincenzo aveva comprato a Grosseto, al pubblico incanto la tenuta di Gorarella, e poco dopo il fratello ne aveva acquistata una seconda, con essa confinante. Qui i due fratelli avevano cercato di mettere in pratica la comune visione, ossia di sviluppare in maremma, dove la mezzadria era d’ostacolo, una grande azienda altamente meccanizzata, con operai salariati e largo utilizzo di macchinari agricoli importati dall’Inghilterra, sul progetto di high farming inglese.

Il progetto maremmano, nella zona infestata dalla malaria, scarsamente popolata e soprattutto dove i lavoratori facevano ostruzionismo e spesso boicottavano le nuove ed efficienti macchine agricole arrivate dall’estero, fu abbandonato. Vincenzo, dopo la Terza guerra di Indipendenza, combattuta dal Regno di Italia contro l’Impero austriaco (20 giugno del 1866 al 12 agosto dello stesso anno), posando per così dire le armi, decise di tornare alla sua passione iniziale, ossia la botanica. Questa volta, siccome dieci anni prima aveva acquistato un’altra tenuta a Porto Ercole, la Casa Bianca, per la modica cifra di 1200 lire, pensò di creare un giardino Esperimentale, per testare la sopravvivenza di specie vegetali, che provevivano da climi molto più caldi.
In quegli anni infatti, nel 1866, l’uscita del terzo volume della Flora Australiensis di George 1
Bentham , “primo botanico sistematico del XIX secolo” aveva stimolato in Italia il gusto per i giardini di acclimatazione, il più famoso dei quali era quello della Mortola vicino a Ventimiglia, creato dagli inglesi Thomas e Daniel Hanbury, con cui Ricasoli era in contatto.
L’esperimento botanico di Vincenzo Ricasoli ebbe il grande merito di spezzare un tabù, in un momento storico in cui si pensava che il futuro ineluttabile dell’Italia fosse l’agricoltura, un’agricoltura legata a una precisa distinzione climatico-territoriale. Vincenzo, botanico dilettante, ma riconosciuto e stimato dai grandi botanici del tempo, dimostrò invece che le piante hanno una grandissima capacità di adattamento, e che quello che contava di più, erano altri fattori, come la composizione del terreno, l’altitudine, l’acqua e altri meccanismi complessi, che legati insieme erano in grado di modificare le condizioni teoriche di sviluppo delle piante, rendendo possibili acclimatazioni altrimenti impensabili. Il giardino di Porto Ercole giunse attorno al 1890 ad avere 1500 specie di piante rare e interessanti, provenienti principalmente da Nuova Olanda, dal Capo di Buona Speranza e dal Messico.
I primi libri contabili relativi alla tenuta di Porto Ercole risalgono al 1858 e riguardano principalmente le entrate derivate da quattro poderi Casabianca o Le Viste, Sgalera, Casasgalera e Oliveto, per un totale di 200 ettari, lavorati da famiglie coloniche, che si occupavano dell’oliveto, dell’agrumeto, della vigna, dei pascoli e del bestiame. Ma è solo dieci anni dopo, nel 1868, che inizia l’impianto di un giardino sperimentale. Ricasoli aveva però un serio problema, rappresentato dalla mancanza di manodopera locale durante i mesi estivi, ossia proprio quando, per il caldo e la mancanza d’acqua, le coltivazioni richiedevano più lavoro. Infatti da sempre in maremma, mancando una classe contadina stanziale, nei latifondi per i lavori di agricoltura, disboscamento, sterro e canalizzazione delle acque, si ricorreva a manodopera importata, ossia al lavoro di braccianti agricoli che durante i mesi invernali (da ottobre a marzo) arrivavano in maremma a cercare lavoro, proveniendo dall’Abruzzo, dagli Appennini liguri e toscani, ma anche dall’Emilia. Per fortuna, per sanare il problema della mancanza di forza lavoro locale, il Ministero di Grazia e Giustizia, pensò di proporre ai proprietari terrieri di sfruttare il lavoro dei condannati ai lavori forzati nelle colonie penali di Piombino, Castiglione, Orbetello e Porto Ercole. Naturalmenti i carcerati, che dovevano essere “di buona condotta”, venivano mandati in squadre, accompagnate e tenute d’occhio da guardie armate e il proprietario terriero doveva mettere a disposizione un locale per fare riposare e mangiare i carcerati. Chi ne faceva richiesta si impegnava a versare al penitenziario, una lira al giorno, di cui metà restava all’amministrazione carceraria e metà andava al condannato, felice di poter guadagnarsi un gruzzoletto per il futuro grazie al lavoro. Vincenzo Ricasoli si attivò subito e, secondo un viaggiatore del tempo, ottenne una trentina di carcerati, cui vennero affidati lavori di scasso, il terrazzamento e la costruzione dei muretti a secco, ma anche la cura dei vigneti, dell’orto, dell’agrumeto e delle altre colture, tra cui di sommacco ricco di tannino e utilizzato per la concia delle pelli. Da questa prima gestione prevalentemente agricola Vincenzo passò alla piantagione di semi e piantine importate, grazie all’arrivo dei bastimenti a vapore che arrivavano in porto.
Le prime piante esotiche messe a dimora nel giardino provenivano dall’Australia, dal Capo di Buona Speranza e dal Messico. Le piante prosperarono e l’esperimento andò avanti…
Ricasoli, con grande costanza ed ingenti somme di denaro, nonostante la forte pendenza del terreno, la cattiva qualità del suolo che prevedeva lo scasso profondo e l’inserimento sperimentale di calcinacci per il calcio, di sabbia per la silice, di humus e alghe marine marcite e dissalate per migliorarne il terreno e nonostante i forti venti, principalmente Scirocco (S.E.) e Maestrale (N.O.) che in inverno soffiavano con vigore e la scarsità di acqua, portata con i barili in estate, riuscì nell’intento nel corso di circa vent’anni. Il giardino costruito sul declivio del colle delle Bicche, in una zona dove la temperatura variava da un masimo di -5° C in inverno a un massimo di + 30° C in estate, divenne un “nido di quiete e di riposo”, considerato all’epoca il secondo orto botanico in Italia, e i frutti di questo Eden raccolti, essiccati, classificati e conservati da Vincenzo Ricasoli in un ricchissimo erbario, che fu donato al Museo Botanico di Firenze.
Vincenzo Ricasoli morendo nel 1891 senza figli, lasciò erede universale il pronipote Giovanni Ricasoli Firidolfi, con il compito di proseguire il lavoro del giardino. Alla morte di questo avvenuta solo dieci anni dopo il prozio, il giardino rimase alla moglie Giuliana Corsini, che poi lo vendette a Pier Francesco Corsini di Laiatico, bisnonno degli attuali proprietari. Negli anni successivi, questo ramo della famiglia Corsini, i cui interessi economici erano più spostati sui vigneti di Firenze e andavano in vacanza a Forte dei Marmi, si occuparono poco del giardino, che velocemente diventò una specie di jungla. A completare il tutto, nel 1943, una bomba sganciata dagli inglesi della R.A.F. distrusse completamente il villino, la vecchia casa padronale. Dopo la guerra, molte etichette che identificavano le piante si persero e il giardino prese poco a poco un aspetto da giungla esotica, finchè finalmente nel 1989, Cino Tommaso Corsini, grande appassionato di giardini, ricominciò ad occuparsi in maniera concreta della proprietà, debellando le piante che avano lo avevano progressivamente invaso e convinto della necessità di invertire il cursus negativo, chiamò in aiuto il curatore del Royal Botanical Garden at Kew, altrimenti detto Kew Gardens, Mr Simmons. Quest’ultimo accettò la sfida, e insieme con l’aiuto dei suoi esperti in piante tropicali e con alcuni esperti dell’Università di Firenze e Pisa, iniziò il riconoscimento delle specie botaniche sopravvissute, arrivando a segnalare la presenza di 649 alberi e arbusti più significativi.